Gesù, Giuseppe e Maria profughi e il dramma dei migranti interni
Molti ricorderanno ancora la polemica suscitata dopo le parole di Papa Francesco in occasione dell’omelia del Natale 2017, quando ricordò che la Sacra famiglia fu un esempio di famiglia profuga, costretta a lasciare il proprio paese. “Maria e Giuseppe, per i quali non c’era posto, sono i primi ad abbracciare Colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza“, aveva detto.
“Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono tanti passi – aveva aggiunto – vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire. Vediamo le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra. In molti casi questa partenza è carica di speranza, carica di futuro; in molti altri, questa partenza ha un nome solo: sopravvivenza. Sopravvivere agli Erode di turno che per imporre il loro potere e accrescere le loro ricchezze non hanno alcun problema a versare sangue innocente”.
Molti ancora ricorderanno la risposta dei conservatori benpensanti che non potevano accettare l’accostamento di Gesù, Giuseppe e Maria ai rifugiati e, meno che meno, ai clandestini che sbarcano sulle nostre coste, perché questo avrebbe messo in crisi la loro identità cristiana vista come tradizione o, peggio, una bandiera identitaria da sventolare in faccia ai migranti, tanto più se non cristiani. Una fede vissuta dunque come una bandiera e non come piena fiducia nella carità, senza se e senza ma.
La sterile risposta argomentava che Giuseppe e Maria incinta si spostarono da Nazareth a Betlemme, città d’origine di Giuseppe, per il censimento romano (Censimento di Quirinio), che prevedeva di recarsi nella città d’origine del pater familias, dove poi nacque anche il piccolo Gesù, come se fosse necessario un parallelismo storico fedele per identificare Gesù con il migrante, come se non fosse dovere di ogni cristiano identificare Cristo con ogni ultimo, qualunque sia la sua origine e la sua storia.
In ogni caso, ovviamente, non si sta parlando di questo viaggio ma di uno immediatamente successivo, quello in Egitto, un viaggio che non a caso passa col nome di fuga, la “fuga in Egitto“. Fuga da chi? Dai soldati di Erode e il suo editto che imponeva l’uccisione di tutti i nati negli ultimi due anni nel suo regno, per timore della profezia che voleva essere nato in quei giorni il nuovo re dei Giudei.
Si legge nei Vangeli, “Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo. Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode“. Questo è esattamente il destino dei profughi e richiedenti asilo, che fuggono per guerre e persecuzioni e tornano quando la situazione ritorna alla normalità, quando viene deposto l’Erode di turno.
A quest’altra critica dovremmo rispondere con un dato: 2 milioni. Questo il numero stimato di rifugiati e sfollati interni in Africa, secondo l’Alto commissariato dei rifugiati dell’Onu. Nella maggioranza dei casi si tratta di profughi della macroregione dei Grandi laghi e del Corno d’Africa, che vivono in campi profughi in Congo, Sudan, Uganda, Somalia e, in misura inferiore, in Costa d’Avorio, Ciad, Kenya, Sudafrica e Uganda. La maggior parte dell’emigrazione africana è infatti interna al continente.
A questo numero, si aggiungono i cosiddetti migranti economici, che si spostano dalle zone rurali alle città o in Paesi limitrofi in cerca di un destino economico più favorevole. Le mete più gettonate sono Sudafrica, Marocco, Tunisia, Algeria e Libia. Di questo tipo di migrazione interna, come una vera e propria emorragia, ne siamo da sempre anche noi testimoni, con flussi che dall’Italia vanno verso il Centro e Nord Europa o dal Mezzogiorno al Nord Italia.
Dovremmo tutti riflettere sul fatto che gli sbarchi in Europa sono soltanto la punta d’iceberg di un fenomeno abnorme e per noi invisibile che riguarda soprattutto il continente africano, devastato da guerre, carestie, persecuzioni, totale precarietà e instabilità sociopolitica e crisi economica, accentuata da un cambiamento climatico globale galoppante che i Paesi più poveri possono solo subire, non essendo attrezzati per tamponarne gli effetti.
Il nostro è un mondo in crisi, dove i valori che ci hanno formato si scontrano quotidianamente con la dura realtà che abbiamo contribuito a creare, nascosti proprio dal velo ipocrita di quei valori di accoglienza e solidarietà cui ci credevamo detentori. Oggi questo velo è caduto, gli egoismi nazionali e individuali sono emersi, neppure si prova ad essere più buoni, l’accoglienza e l’amore per il prossimo sono per alcuni di noi quasi un sintomo di debolezza, di antipatriottismo e perfino di anticristianesimo se chi arriva non professa fede cristiana.
Oggi è la vigilia di Natale, non ci illudiamo che un giorno di preghiera o, molto più spesso, di abbuffate possa cambiare i nostri cuori, ma vorremmo che possa in qualche modo essere un’occasione per avviare una riflessione dentro e fuori di noi, per non far parte di quella schiera di “sepolcri imbiancati“, quella “razza di vipere” e “di ipocriti” che tanto aborriva colui del quale questa notte in tanti celebrano la nascita. L’augurio per questo Natale è che possiamo tutti quanti essere un po’ cristiani o anche semplicemente esseri umani, quel tanto che basti per portare un po’ di giustizia in questo caro mondo.
Esodo 12, 49; Levitico 19, 33-34
Vi sarà una sola legge sia per il nativo sia per lo straniero residente in mezzo a voi… Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli dovrete far torto, ma lo tratterete come colui che è nato fra voi; l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto.